CON GERSHWIN IN FILIGRANA di Franco Finocchiaro

CON GERSHWIN IN FILIGRANA DI FRANCO FINOCCHIARO

sabato 4 marzo 2023 ore 21,15
Altidona (FM) - Accademia Malibran - Sala Colonna
in collaborazione con

SERATA GERSHWIN
Gabriele PIERANUNZI violino
Gabriele MIRABASSI clarinetto
Enrico PIERANUNZI pianoforte

 

CON GERSHWIN IN FILIGRANA
Franco Finocchiaro

 

 

L’Accademia Internazionale Maria Malibran conferma anche con il programma proposto in questa stagione, la creatività, la competenza e l’originalità con cui sa organizzare cartelloni che figurerebbero a pieno titolo tra i più interessanti anche nel contesto delle capitali musicali d’Europa e del mondo, come Roma, Milano, Parigi, Vienna, Berlino, Londra e New York. Ed è proprio ad uno dei principali autori del XX° secolo che si è formato nella fibrillante cornice della Grande Mela dei Roaming Twenties, che è dedicato l’appuntamento del prossimo sabato 4 marzo, ospitato nel delizioso salotto concertistico messo a disposizione dall’Accademia di Altidona. In questa sede intima e calorosa il trio formato dal pianista Enrico Pieranunzi con il fratello Gabriele al violino e Gabriele Mirabassi al clarinetto, presenteranno infatti un repertorio di pagine composte da George Gershwin, rielaborate su misura per questa formazione ed eloquentemente registrate nel cd Play Gershwin risalente al 2018. E’ risaputo come l’operazione di arrangiamento, e ancor più quella di riorchestrazione per organici diversi dagli originali, sia delicatissima, ma se di questi fallimenti annunciati ne abbiamo diverse prove con trasformazioni in cui anche abili musicisti mettono metaforicamente i baffi alla Gioconda, senza essere Duchamp, il progetto di Pieranunzi è al contrario magistrale, tanto da poter figurare nel ristretto Parnaso dei lavori esemplari tra quelli elaborati a partire da composizioni che un autore ha pubblicato nella veste licenziata come definitiva. Ne scaturisce un Gershwin che il pianista romano ha saputo trasfigurare sintetizzando la corticale sostanza della sua musica, per interpretarla con un organico dal tessuto timbrico particolare che la musica da camera aveva già sperimentato, tra gli altri, con i cinque brani di Dmitri Šostakovic, la Suite di Darius Milhaud, il Largo for Violin, Clarinet and Piano di Charles Ives e i Contrasts, SZ.111 che Béla Bartók ha composto nel 1938 su commissione del funambolico clarinettista di jazz Benny Goodman. In questo lavoro di ridefinizione si percepisce la cura con cui Pieranunzi ha fatto risuonare dentro di sé la musica di Gershwin per cogliere tutte le sfumature del suo respiro e restituirle attraverso il processo di una riscrittura affrontata con umiltà ma anche con una cautela che ha saputo assumersi i rischi di una realizzazione assolutamente originale. Con gli strumenti raffinati della sua riconosciuta autorevolezza artistica, Pieranunzi ha raccolto un formulario di idee concentrate su angolature che mettono a fuoco il carattere della musica di Gershwin e lo stile identificabile nei suoi dettagli. E se, come ci insegna Aby Warburg, “il divino si cela nei dettagli” , nelle versioni del trio questo divino emerge nei dettagli dell’arieggiare melodico, delle prismatiche combinazioni timbriche, del disegno armonico e dell’architettura delle forme, con il nitore di un’adamantina valenza poetica o narrativa. Poetica quando l’operazione ricostruttiva di Piernunzi ha dovuto fare i conti con la sottrazione indispensabile per conferire equilibrio alla pagina in cui all’opulenza orchestrale si è sostituita la sintesi cameristica. E’ il caso di Rhapsody in Blue, orchestrata in origine da Fred Grofè dopo che nel 1924 era stata commissionata da Paul Whitman e configurata da Gershwin con le sue inconfondibili alchimie, visionarie nell’anticipare con lungimiranza quella salda relazione tra il jazz e la musica classica che oggi sembra essersi finalmente consolidata. Con Gershwin gli accenti popolari del blues e quelli ereditati dalla cultura musicale colta hanno iniziato ad agire secondo la legge dei vasi comunicanti, dando luogo ad un autentico prototipo dell’ibridismo nativo che ha caratterizzato il genius loci della musica americana. Di fronte a quella vertiginosa polifonia multiculturale, presentata al debutto dell’Aeolian Concert Hall di New York come “an experiment in modern music” e che l’autore ha definito “una sorta di multicroma fantasia, un caleidoscopio musicale dell’America, col nostro miscuglio di razze, il nostro incomparabile brio nazionale, i nostri blues, la nostra pazzia metropolitana”, ascoltatori esigentissimi quali Heifetz, Kresler, Sousa, Stravinskij e Rachmaninov si entusiasmarono, esautorando automaticamente certi commentatori di professione le cui analisi musicologiche in merito sono apparse viziate da una sorta di sordità concettuale e perfino ideologica. Purtroppo Gershwin pativa i giudizi dei suoi detrattori che alimentavano il suo complesso di inferiorità di fronte ai grandi maestri della composizione, seppur un suo ammiratore come Maurice Ravel, nel 1928, abbia rifiutato di dargli lezioni confermando l’entusiasmo dei colleghi per la sua musica che gli sembrava perfetta così com’era. In quello stesso 1928 Gershwin visitava Parigi riscuotendo l’ammirazione di altri protagonisti dell’aristocrazia musicale che gravitava nella Ville Lumière, tra cui Stravinskij, Prokofiev, Milhaud, Poulenc. Così quando la New York Simphony Orchestra gli commissiona un poema sinfonico, all’insegna della coincidenza con l’avventura transalpina , Gershwin lo intitolerà An American in Paris. Scegliendo di includere questo lavoro nel repertorio del suo progetto, Pieranunzi ha approfondito con uno sguardo lenticolare la sua partitura, sottoponendola ad una destrutturazione critica per portare alla luce i suoi dettagli intertestuali, come seguendo il consiglio di Walter Benjamin quando suggerisce la necessità di focalizzare la propria attenzione sul volto nascosto dell’opera d’arte. In questo caso il procedimento di orchestrazione cameristica per pianoforte, violino e clarinetto ha potuto avvalersi di tre fonti. Le prime due coeve del 1928, con la versione per due pianoforti e quella in cui Gershwin si è cimentato orchestrando un organico imponente che gli consentiva di sfoderare tutte le conoscenze che il suo studio fai da te poteva vantare e che già aveva sperimentato con il Concerto in Fa del 1925. La terza realizzata in seguito da un gershwiniano di razza come il pianista William Daly, che ha concentrato la partitura scrivendola per un solo pianoforte. Da questo materiale Pieranunzi ha ricavato una partitura per trio con un lavoro prezioso di meticolosa limatura che ha rimodulato puntualmente anche la forma delle singole parti melodiche e aggiunto una cadenza per il suo pianoforte immaginata come una variazione “alla Gershwin”. Al contrario di questi ridimensionamenti poetici, hanno un nocciolo narrativo i brani in cui Pieranunzi ha aggiunto personaggi strumentali a partiture per pianoforte come i Preludi che già erano stati elaborati dal sublime violinista Jascha Heifetz per la sua incisione del 1965. In questo caso Pieranunzi li riorganizza per il trio con la necessaria redistribuzione delle parti, risolvendo brillantemente le questioni intrinseche alle caratteristiche di estensione e di tecnica strumentale degli strumenti chiamati ad intervenire nel dialogo con il pianoforte. Anche in questa circostanza l’obbiettivo non è stato solo quello di disegnare un agglomerato musicale che fosse corretto e suonasse bene, ma anche quello di revisionare la partitura sottolineandone il pathos narrativo con i nuovi colori dell’impasto timbrico a tre che fa risplendere attraverso il suo suono moderno e avvolgente, la forma di una rinnovata chiarezza. Questi presupposti consentono alla musica di scorrere con fluidità naturale anche se non c’è nota che non sia stata studiata, soppesata e meditata, per tessere un rosario di suoni dalla palpitante forza espressiva. Tra i brani che il trio ha registrato sul cd precedentemente menzionato, il pianista capitolino ha inserito anche una sua composizione scritta per il trio in omaggio all’estetica di Gershwin e coerentemente intitolata Variazioni sul tema di Gershwin (forse prendendo a prestito la formula scelta da Gershwin per il suo Variations on "I Got Rhythm” dedicato al fratello Ira e dove il compositore azzarda passaggi atonali). E a proposito di temi gershwiniani, Pieranunzi e compagni nei loro concerti ne aggiungono altri rispetto a quelli del loro cd. Alcuni, come gli incantevoli My man’s gone now e It ain’t necessarily so, che sono estrapolati dall’opera Porgy and Bess ed eseguiti, secondo la virtuosistica trascrizione di Heifetz, in duo da Enrico e Gabriele Pieranunzi, uno dei più talentuosi violinisti italiani che oltre a essere primo violino del Teatro San Carlo di Napoli, si è aggiudicato premi internazionali prestigiosissimi come, ad esempio, il Premio Paganini di Genova, quello goriziano Rodolfo Lipizer o il Gian Battista Viotti di Vercelli. Altri appartengono invece allo sterminato repertorio composto da Gershwin per il teatro musicale di Broadway, divenendo vere e proprie arie con una vita propria, fiori all’occhiello dell’editoria di Tin Pan Alley. Questi ultimi con la loro forma canzone e le loro felici armonie consequenziali, sono fonte inesaurita a cui si rivolgono i jazzisti in tutte le epoche con versioni uniche che hanno beneficiato della natura anulare del ritornello, per creare composizioni istantanee e irripetibili con la prassi liberatoria ed insieme rigorosa dell’improvvisazione di cui, ad esempio, Bach o Liszt sono stati due maestri ante litteram seppur con i loro linguaggi specifici. In questa circostanza una delicata ballata come The man i Love o la briosa energia di But not fon me, sono scelti da Pieranunzi e dal clarinettista perugino Gabriele Mirabassi per completare l’omaggio a Gershwin, rispolverando il suo talento di songwriter con un’escursione nel linguaggio del jazz di cui questi due artisti eclettici sono straordinari messaggeri con riconoscimenti a livello mondiale. D’altronde per realizzare con successo persuasivo questo itinerario gerswhiniano così ambizioso, era indispensabile un organico formato da tre solisti d’eccezione con verve, eleganza, fantasia, intensità e cultura aperta, in grado di mettere il teatro della loro intelligenza musicale a disposizione dell’interplay che disciplina in un affresco corale le fiamme esuberanti del virtuosismo. Gershwin scompare prematuramente nel giugno del 1937 quando non aveva ancora compiuto 39 anni e pochi giorni prima della sua morte il Conservatorio romano di Santa Cecilia lo nominava accademico onorario, nonostante in Italia il periodo non fosse dei migliori per conferire riconoscimenti agli artisti di origini ebraiche. Giunsero necrologi emozionanti tra i quali quello amicale di un collega che sperimentava principi musicali inauditi sin dai primissimi anni ‘20. Era il sommo Arnold Schönberg, teorico della dodecafonia, che un giorno dopo il luttuoso evento dichiarò: “George Gershwin era uno di quei rari tipi di musicisti per i quali la musica non è più una questione di maggiore o minore abilità. La musica, per lui, era l’aria che respirava, il cibo che lo nutriva, la bevanda che lo ristorava. La musica era ciò che lo faceva sentire e la musica era la sensazione che esprimeva. Un’immediatezza di questo genere è data solo ai grandi uomini”. Ed è forse grazie alla sincerità di questa immediatezza che la musica di Gershwin ha conservato la sua freschezza intramontabile attraendo autentici gesti d’amore che, compiuti nel presente, guardano al futuro come quello esemplare del trio guidato da Enrico Pieranunzi.


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